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Toppi Alessandro

1. SPETTACOLO DI TEATRO

  • Anatomia di un suicidio (Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni) [Perché nessuno spettacolo, di recente, m’ha posto al cospetto della (mia) vita come questo. Le persone che vanno e gli oggetti che restano a ricordarci di loro; l’amore per chi è venuto prima di te e il desiderio, o l’esigenza, di essere un’altra cosa, completamente diversa; il fallimento di due generazioni e il testimone lasciato nelle mani d’una bambina, che avanza dal fondo di scena. Tocca a te, prova a fare meglio ti prego. E certi silenzi, certi sguardi, certi incroci tra le battute; e la capacità di costruire un’opera che ci parla senza mai aprire furbescamente alla platea (è ancora possibile dunque stare “dentro” e dire di noi) e il respiro collettivo, che avviene perché in scena non c’è un cast messo al servizio di un titolo ma una compagnia che fa avvenire il teatro]
  • Non tre sorelle (Enrico Baraldi) [A un punto forse ho capito. Qui il tema non è mettere o non mettere in scena Čechov (meglio: l’opera di uno degli uomini più delicati, dolci e pacifici che il mondo abbia mai conosciuto) in un momento in cui “Mosca” non è più la meta di un ritorno all’infanzia e sulla mia casa, in Ucraina, la Russia fa cadere le bombe. Il tema è quanto riusciamo ad ascoltare (davvero) il pensiero, le parole e il parere dell’altra. Mi dici che non vuoi e – per quanto non sia d’accordo o voglia esattamente il contrario – lo compendo. Faccio un passo indietro, mi metto di lato o ti sorreggo. In questo non c’è solo la radice di uno spettacolo (cechoviano, oltre gli stilemi) ma un seme di pace]
  • Risate di gioia (Elena Bucci e Marco Sgrosso) [ I discorsi pandemici sulla dignità del mestiere e dell’arte sono svaniti, svanita è ogni presa di coscienza collettiva, ripartita la macchina. Di quel che fu non resta nulla, politicamente. E quando nulla resta, direbbe Agamben, una cosa rimane tuttavia: la poesia. Di quei discorsi sulla dignità del mestiere e dell’arte resta questa poesia, Risate di gioia. Che parlando del vecchio (dalla Duse a Petito, dai portaceste alle ballerine del varietà) parla dell’indistruttibile del teatro. Tra quattro stracci logori, i residui di un camerino, in una sala in cui squittiscono i topi e che tanto sarebbe piaciuta a Banu. Ci sono due attori. Il loro corpo è un bagaglio, nel bagaglio c’è un accumulo di storie che coincide con la loro esistenza]

2. SPETTACOLO DI DANZA

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3. REGIA

  • Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni (Anatomia di un suicidio [Perché assunto come campo d’azione una drammaturgia che intreccia tempi e biografie in uno spazio che vive l’evoluzione degli anni, da un lato rendono perfettamente la struttura in-pagina dell’opera (la triplicità dell’incolonnato voluto da Birch) e, dall’altro, lo caratterizzano arricchendolo. La pluralità di cose su cui attrici e attori imprimono le impronte, la liquidità delle immagini proiettate (che testimonia l’ondosità d’ogni memoria) e quel corridoio in proscenio, che permette a una nonna di osservare i fiori piantati da sua nipote, anche se la donna è già morta, e alla nipote di accoccolarsi dove si nascondeva sua nonna, quando voleva stare da sola. E inoltre: perché, oltre che una regia, questa è una presa di posizione contro-sistemica: in un teatro che privilegia sempre più confezioni trasportabili e “massimo due attori e un’ora di spettacolo” si può ancora recitare in molti, quando serve, e per quanto è necessario. La complessità. Per affrontare la quale occorre il giusto tempo, una frequentazione assidua tra gli esseri umani che dovranno recitare e uno scambio che alimenti la coabitazione (questo respirare all’unisono) che farà la differenza sul palco]
  • Emanuele Valenti (Ex-esplodano gli attori) [Non per la regia visibile, che asseconda il connotato politico dell’opera, ma per quella invisibile. Emanuele Valenti infatti – sotto la patina della famiglia uruguagia di Calderòn – pone la sua stessa (ramificata) famiglia teatrale facendomi avvertire, tra gli snodi di una lotta tra generazioni, anche un discorso ulteriore. Quando noi credevamo. Quando scegliemmo il teatro. La vita che dicemmo avremmo vissuto. La coerenza con cui avremmo dovuto tenere ferme le nostre decisioni. E come siamo cambiati. Come tradimmo. Come siamo morti, anche se stiamo respirando ancora. C’è, per chi riesce a notarla, non l’Uruguay in scena dunque, ma una trama che parte dall’off di Napoli e arriva ai palchi che questi artisti (proprio questi) stanno calcando, a questo punto della loro carriera]
  • Gianni Farina (Odradek) [Scrivo “Gianni Farina” ma vale “Menoventi”, in quanto gruppo. Che con Odradek allestisce una scatola misurata millimetricamente. Dentro ci sono: un discorso sui bisogni indotti dal capitalismo e l’impalpabilità touch-screen con cui vengono esauditi; una storia d’amore; la resa di un oggetto che coincide con un uomo, ridotto a povera cosa. Avviene attraverso: l’occlusione in una casa distopica, in cui s’affonda nei divani e le lampadine parlano; una recitazione prosciugata d’ogni fremito empatico; certe magie di cui vorremmo sapere il trucco. Per contare le date fatte finora bastano meno delle dita d’una mano: cosa si aspetta a prendere quest’opera e a programmarla nel proprio teatro?]

4. ATTRICE/PERFORMER

  • Anna Bellato (Meno di due) [ C’è una naturalezza che non funziona da specchio di te, che siedi in platea, ma che produce invece l’esistenza di un’altra persona (maschera) talmente credibile da poter essere incontrata non sul palco ma sul pianerottolo, a scuola, alla fermata dell’autobus o a casa d’amici. Anna Bellato da anni, con Teatrodilina, dà vita a creature credibili che, m’accorgo, io non dimentico. Non dimenticherò neanche la ragazza veneta di Meno di due, vista da spettatore-pagante stando sul fondo di Carrozzerie N.O.T. Difficilmente dimenticherò come cammina tra le foglie cadute; come balla in ciabatte; come sbuffa o sorride, come resta sola (o forse no)]
  • Antonella Morea (Felicissima Jurnata) [Winnie incatastata in un basso della Sanità, immobile con quattro fari sulla testa, impiramidata («zucata verso il cielo») perché dominante ma immobile, perdente per quanto regnante (sul poco – Lello compreso) Lina-Antonella Morea affronta la felicissima jurnata, l’ennesima, in cui niente succede. Più che col corpo, è nella voce la sua tremenda avventura. Cavernosa, piena d’echi interni (e di citazioni teatrali, di rumori da vicolo, di continue abitudini quotidiane), ruvida, fastidiosa quando insiste, esagerata nei toni anche se parla a pochi centimetri (qui si urla, non si dialoga), amareggiata se canta (perché ha l’anima in catene, per dirla con Enzo Moscato) e impaurita dal tempo che passa e dalla possibilità di restare da sola (ti prego respira, ascolta, rispondi). Così, già soltanto ascoltandola, vediamo l’insopportabile condizione: che ha sopportato per tutta la vita. Cosa ho avuto? Perché a me? «E mo’?» Che succede?]
  • Tania Garribba (Anatomia di un suicidio) [Quando poggia la schiena contro la parete si forma un’ombra piccola, che le annerisce l’incavo del collo. Mi pare un rimando (involontario) ai tormenti di questa donna, che non comprende nessuno. Da quanto soffri? mi chiedo guardando la Carol di Tania Garribba, quand’è che hai cominciato? Il modo in cui canta o sta distesa ad ascoltare la musica, come tiene la figlia sul petto, la frase «a me piace la solitudine» detta guardando occhi negli occhi il marito e questo suo starsene a parte, gli altri festeggiano mentre lei ha già deciso di andare, di incamminarsi – fino in fondo – lungo i binari. Ebbene: se ricordo questo e molto altro della figura è merito di un’attrice che, della figura, crea ogni dettaglio con un senso della misura che è raro. Mai davvero un grido, un’esaltazione, un eccesso, ma sempre un segno minuscolo invece (un ciuffo di capelli fuori posto, la spalla nuda dell’abito, l’«io sto bene» detto prima di andare) in cui Garribba concentra anni di pensieri ossessivi, certi abissi indicibili e una presenza della morte che la distingue dagli altri, che la morte invece la rimuovono, come non esistesse]

5. ATTORE/PERFORMER

  • Luca Saccoia (Natale in casa Cupiello. Spettacolo per attore cum figuris)* [Non si tratta dell’ennesima versione di Natale in casa Cupiello, qui il presepio non viene riposto dov’era il presepio, sopra al mobile, davanti alla tavola. È invece questo il racconto di ciò che un figlio compie con quel che gli resta. Mi sono rimasti questi pastori, papà, cosa ne faccio? L’eredità. O il bisogno di dirsi, rimasto solo, di nuovo la storia di quando eravate con me (e di quando ero felice, ma non lo sapevo). Di questo enorme fardello Luca Saccoia si fa carico. E anche di un’altra cosa: compartecipare al rinnovamento del rapporto con un Maestro totemico (Eduardo) che la generazione dei padri dell’avanguardia (reale o presunta) rimosse e che invece i teatranti e le teatranti quarantenni vogliono tornare a frequentare. Con rispetto e rigore, a modo loro]
  • Francesco Villano (Anatomia di un suicidio) [Il volto gli cala verso il petto, la schiena gli si piega di una ventina di gradi, i piedi si piantano a terra, le mani ancorano invece la spalliera della sedia. Su cui è seduta sua figlia, adulta, mentre a destra, sul palco, la moglie gli ha detto un addio che noi non abbiamo ancora sentito. Villano è tra i gangli di Anatomia di un suicidio: funziona da intercapedine carnale, da cerniera, da perno, meglio: lega due dei tre spazi allestiti come fosse un ago col filo. Disperatamente, senza capirci poi molto, ma tentando a suo modo, fino alla fine. Perdendo, due volte. La sua è un’esistenza imperfetta, che m’ha commosso]
  • Paolo Mazzarelli (Ferito a morte) [Che strana segnalazione è questa. Indicare il suo nome nello spettacolo in cui meno dice, in cui meno fa. E tuttavia qui sta il punto. Il suo Sasà infatti appare, guarda, e si fa guardare, stando muto, s’affaccia dalla terrazza o cammina – i passi non producono un suono – o ancora scivola, quasi radente la parete come fanno i gatti o siede, ma non ne senti neanche il respiro, per quattro-quinti dell’opera. Facendo da tema onni-perdurante, da argomento di discussione perenne. È la fissazione degli altri: abita insomma le chiacchiere come un idolo appartiene ai colloqui dei fan. È perciò presente anche in assenza. Ma il Sasà di Mazzarelli diviene (meglio: si svela) infine anche un’altra cosa, terribile: lo spettro in anticipo del fallimento d’ognuno. Così come lui si dissipa, si dissipa la giovinezza, si dissipano i sogni, le illusioni. E, da sempre, si dissipa anche Napoli]

6. ATTRICE/PERFORMER UNDER 35

  • Giordana Faggiano (Sei personaggi in cerca d’autore) [Se è vero che i sei Personaggi sono dei posseduti della propria vicenda, va scritto che Giordana Faggiano, in questa versione dell’opera, è posseduta dal ruolo che il regista (e l’autore) le hanno dato. L’ho vista due volte, la seconda senza quasi staccare gli occhi da lei: non è mai parsa libera o alleggerita dalla dannazione che le è stata assegnata. Neanche quand’è in controscena o sul fondo, e non tocca a lei o non è ancora il momento di dire la battuta prevista. C’è un’aderenza rara (lo spirito qui ha trovato la sua carne) che è tale da diventare un’identificazione: senza, nulla avrebbe senso. Né la sua parte, né l’opera che la contiene, né il dramma che porta]
  • Rossella De Martino (La cupa) [Rossella De Martino, per questa “resuscitata” versione de La cupa aveva un compito quasi impossibile: far resuscitare Maria delle Papere, che nel 2018 era stata Marianna Fontana. Vi è riuscita. Il suo corpo ha vibrato assieme a quello degli altri, la sua voce invece – che per estensione sembrava andare in profondità più che in alto – non si è dispersa sgranata e diffusa col canto ma è stata compatta come un pugno, rivolto di volta in volta a uno e poi a un altro, e poi a un altro, e a un altro degli spettatori presenti. Sentitemi, abbiate di me memoria, fate testimonianza di quello che mi fecero. Piccola e tremante come un fringuello, estrema come chi muore per amore – lì dove amore non c’è più]
  • Federica Dordei (Tre sorelle) [Impossibile strappare Ol’ga a Maša e Irina. È una crudeltà dovuta ai meccanismi da premio, a maggior ragione qui più insensibili perché le tre attrici, (con Federica Dordei Monica Piseddu e Arianna Pozzoli) sono un organismo solo che danza quasi, in preda al flusso continuo di una messa in scena che fa di Čechov un buco nero (il tempo non esiste o meglio, si attorciglia su se stesso come un serpente), una condizione (qui non si vive davvero), e un diagramma sonoro, e una pittura abbagliante infine, anche quando esplode come una peste. C’è in lei invece – nell’Ol’ga di Dordei, la più grande, la prima – una forza-matrice inesauribile: ha (come le sorelle minori) ancora voglia. Di giorni, di felicità, di ricordare e rivivere. Di un’alba, ance quando quest’alba non è altro che il raggio di un faro. Ecco, basta già questo, per sperare di nuovo]

7. ATTORE/PERFORMER UNDER 35

  • Edoardo Sorgente (La tragedia di Riccardo III) [Questo Riccardo non ha la gobba, né il muso da cane, né una gamba più corta dell’altra. Non è nato al chiarore della luna, tra gli ululati dei lupi, né spaventa quando ti guarda. Non fa schifo, non è un mostro. E allora, dov’è la sua condanna (e la sua unicità)? Edoardo Sorgente ha dentro il malanno. Deve: fare la recita, ingannare gli astanti, conquistare la corona. Deve, come deve ogni giovane ragazzo o ragazza da cui ci si attende risultati, successo, o gratificazioni quanto meno, e stabilità. Da bravo, fai quel che ci si aspetta da te, non vorrai mica deluderci. E lui fa, ma con quanto affanno nascosto. Parla, sbrodola, scatta, dondola, cerca di convincerci (ci riesce) e lotta, strepita, festeggia mentre (ossessivamente) chiede di essere guardato – guarda come sono bravo, guardami, guardami, guardami. E noi lo guardiamo: mentre s’avvia, sorridente, verso l’infelicità]
  • Francesco Roccasecca (Afànisi) [Storia e pratica del teatro napoletano vogliono che non ci sia distinzione di percorso attoriale tra off e tradizione, grandi palchi e piccole sale. Al massimo c’è una diversità di circuito, ma gli interpreti no, quelli passano dallo Stabile al sottoscala di continuo mettendo ogni volta in gioco il mestiere imparato. Roccasecca è avviato per questa strada. Recita Ruccello e la drammaturgia contemporanea, abita il Nazionale ma appartiene all’indipendenza, interpreta la figura facendone un personaggio o figura e personaggio li riduce in brandelli: perché, servono ancora? È perfetto secondo me per Afànisi che, per come ho inteso il lavoro, è anche il racconto di come tre giovani fanno teatro con quel che gli resta (uno spazio, un tempo, il pubblico e un testo), tra i residui del teatro che fu: d’altronde, è questo che all’ultima generazione è rimasto. Un po’ di avanzi, qualche mollica. Un’immagine, per intenderci: quando fuma, spossato e come in pausa, con la maschera di Pulcinella sulla fronte. Ci vedo il rifiuto della napoletaneria di maniera, un po’ di libertà dal folklore imperante e una verità giovane, che si prende la scena furtivamente, solo per poco purtroppo]
  • Valentino Mannias (Pilade) [Il Pilade di Valentino Mannias segue Oreste, abbozza, acconsente e testimonia la sua fedeltà. D’altronde è per la democrazia (presunta), crede al progresso (o è soltanto sviluppo?), lotta coi giusti, affianca i poveri, fa dei reietti i suoi amici – borghesemente. Col tempo comprende. E non al futuro, che inganno, ma è al passato che guarda: «Tutto torna indietro. La più grande attrazione di ognuno di noi è verso il passato» per dirla con PPP. C’è la passione morale di Pasolini in Pilade, il suo tormento politico, e anche quella tensione culturale che lo rese accusabile, da sinistra, di essere troppo simile ai vecchi, ai conservatori, a certi destrorsi. Ebbene, è di tutto questo che Valentino Mannias si fa carico, dando vita a un personaggio che appartiene totalmente al presente. E che passa dall’infatuazione al dubbio, dalla ragione alle soglie del dramma, e dall’esilio (la solitudine) all’illusione e al fallimento. Storcendo lo sguardo, cambiando quasi i connotati del volto, lottando e patendo soprattutto nel corpo]

8. SCENOGRAFIA

  • Tiziano Fario (Natale in casa Cupiello. Spettacolo per attore cum figuris)* [La casa è un telo da sfondo, della stessa consistenza che avevano quelli che Eduardo arrotolava e si portava sottobraccio per fare le sue prime commedie. C’è sopra un disegno fatto da una mano adulta che ha ancora un tratto infantile. Pochi arredi – che fanno laboratorio di San Gregorio Armeno più che luogo domestico – e le maschere e i pupi: stupefacenti le prime, commoventi i secondi (accanto a me, una collega critica ha pianto, alla fine). Sono loro, i Cupiello, fino all’ultima ruga. L’attore ci parla rianimandoli (dandogli fiato) – con tutta l’anima, e il sentimento, e la nostalgia. Noi lo seguiamo a memoria, con affetto. È Natale, di nuovo. Nonostante questo freddo, questa solitudine]
  • Giorgina Pi (Pilade) [Mi è piaciuta questa discarica post-rave party collocata alla fine del Novecento, “luogo del dopo” che, in quanto tale, più che da ambiente funziona da ferita cronologica, da squarcio materializzato del tempo. Corpi giovani si trovano tra i resti, le vecchie carcasse, «una montagna di macerie» e la bassa nebbia frequente e la «la rossa luce della sera di Argo». L’ultimo posto-occasione, forse, in cui ci si interroga sulla democrazia, su cosa sono e divento, su qual è il nostro destino politico]
  • Vincent Longuemare (Barabba) [L’imponente torre ferrosa che fa da palco, innalzamento valorizzante, ribalta e galera è la coprotagonista di Barabba. In combinato coi fari che la lucidano, cromaticamente in contrasto col corpo magnifico di Michele Schiano di Cola: lei è splendida, fredda, lineare, pulita tanto quanto lui è scuro, ispido, grondante, imperfetto, sudato. Più che una scena fa da testimone, da secondina o da giudice: assiste al monologo, muta, inflessibile e in guardia. Tanto, per quanto ci si sbatta, la condanna è già stata emanata. Che stupidi gli uomini che ancora si affannano a dire (inutilmente) le proprie ragioni]

9. COSTUMI

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10. LUCI

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11. PROGETTO SONORO/MUSICHE ORIGINALI

  • GUP Alcaro (Lazarus) [L’indicazione qui funge da freccia: colpisce uno, indica tutti e tutte coloro che hanno determinato la parte sonora di Lazarus. Dalle sette persone della band a Bruno De Franceschi, che ha curato i cori e le pratiche della voce, fino a Casadilego, che ha potenzialità straordinarie che, si spera, il mercato non sciupi. Ecco dunque una parabola disperata che ha la potenza del rock. Avverti che si tratta di un lento commiato, eppure ti fa battere la cassa toracica come fosse un tamburo]
  • Monica Demuru e Cristiano Calcagnile(Solo una cosa ho visto nel mondo) [Durante Solo una cosa ho visto nel mondo ho chiuso gli occhi, più volte. Ed è così che ho visto frammenti di Ricotta di Pasolini e i frame di certo cinema italiano in bianco e nero, straccione e purissimo, e i margini (e i marginali) di Roma e un’Italia che suonava il boom nascondendosi i poveri. Merito di un progetto sonoro-in-forma-di-concerto-recitato che genera immagini attraverso la musica, certi brevi dialoghi e con le voci di Monica Demuru che da tempo, e in forme diverse, sta salvando la colonna sonora della nostra vita rendendocela in teatro]
  • Antonio Della Ragione (La cupa) [Si pensa di solito che nascano i versi di Mimmo Borrelli e poi le musiche di Antonio Della Ragione. Che prima venga l’inferno flegreo (coi suoi criminali e le sue dannate in eterno) e poi la partitura che lo renderà un coro. Non è così. Il teatro di Borrelli non sarebbe questo teatro se non ci fosse Della Ragione, cui tocca simmetricamente l’altra scrittura del mondo che viene evocato. E se infine gli attori sono ingabbiati negli esametri dell’autore, all’interno di questi a muovergli il filo (leggi letteralmente: la colonna vertebrale) è lui, dall’angolo in cui è stato piazzato perché, anche stasera, ricompia le sue musiche live. Finita la replica, quando lo vedi all’uscita, ha il sorriso di un uomo buono. Ma è stato un demone anche lui, anche lui (fino a poco fa) ha torturato e messo a ferro e fuoco anime e corpi]

12. NUOVO TESTO ITALIANO/SCRITTURA DRAMMATURGICA (messi in scena da compagnie o artisti italiani)

  • Felicissima Jurnata (Emanuele D’Errico) [Diciassette pagine che hanno lo spessore d’un classico. Pensate, scritte, provate, riscritte, asciugate, levigate e prescelte alla fine di due anni di lavoro. Si vede, si legge, tutto il tempo che è servito perché il testo diventasse quel che è diventato. Una drammaturgia-mondo, perché radicata indistinguibilmente qui a Napoli ma descrivente la condizione di chiunque. Un continuo di ritorni sonori, e di frammenti linguistici (anche teatrali), tenuti nascosti però sotto una stesa di parole quotidiane: che quel che ci importa è parlare della vita. E un’opera piena, che ribolle intestina e che, non contenta, ammassa anche l’esterno all’interno, facendoci tuttavia percepire il vuoto soprattutto, la mancanza, un burrone, il terrore. «Ma che juorno felice che è schiarato… proprio na jurnata felice. Nun passa nu filo d’aria, nun passa. E oggi è proprio nu juorno felice». Già, è proprio un giorno felice]
  • (H)amleto (Fabrizio Tana) [Fabrizio Tana non riscrive l’Amleto ma lo interpreta attraverso centinaia di messaggi WhatsApp inviati a Tonio De Nitto, che (H)amlet lo dirige: brevi frammenti ossessivi (poi montati dal regista) in cui si piazza al centro dell’opera – Amleto sono io, io sono il principe, il ragazzo, l’eroe. Datosi questa libertà, ottiene esiti sorprendenti, che vanno ascoltati a teatro più che letti su pagina, poiché hanno bisogno di battere, salire e allargarsi, tuonare. Questo perché Tana spezza e ricompone le frasi, fa ribollire le parole, costringe i versi a tornare su se stessi cambiati – un termine perde una sillaba diventando rivelatorio, un assolo non serve più a parlare ma suona invece come fosse una traccia di jazz. E d’altronde il mondo è a soqquadro, non c’è più pace né onore, la forma è un inganno: non sarete ancora attaccati alle regole della grammatica, ai discorsi di facciata e alle buone maniere?]
  • Il Capitale. Un libro che ancora non abbiamo letto (Enrico Baraldi e Nicola Borghesi) [Storia di operai e operaie di una fabbrica e ragionamento sulla nostra appartenenza al capitalismo (inutile sostenere il contrario); risveglio di coscienza (come ci si risveglia al mattino, in branda) e diario di una frequentazione mancata – perché finora non ho sentito il bisogno di varcare i cancelli? Puzzle di testimonianze dirette, saggio azienda-letterario, drammaturgia che va comunque recitata. Fatta (anche) di struttura a cornice, elenchi (le cose che ci sono, quelle che abbiamo perduto) e alternanza tra le parole concrete di chi fa (viene in mente L’altrui mestiere di Primo Levi) e le chiacchiere spersonalizzate della finanza, che ti licenzia con una mail in cui ti augura buona giornata. Soprattutto: la dimostrazione (con Album) che Kepler riesce a costruire testi in cui il personale è inevitabilmente politico, visto che la politica impatta sul personale. Ne deriva una scrittura realistica non perché si prende un pezzo scelto e concreto del mondo – la GKN in questo caso – ma perché non cela lo sporco, quel che non ci piace o non vogliamo sentire: che la fabbrica, ad esempio, «è un posto di merda» (parola di operai) e che noi, finito lo spettacolo, torneremo beatamente a disinteressarcene.  Infine: da leggere, per interrogarsi sul tempo, le merci, la felicità e i nostri contratti precari (la nostra povertà – riusciremo a dircelo finalmente?)]

13. NUOVO TESTO STRANIERO/SCRITTURA DRAMMATURGICA (messi in scena da compagnie o artisti italiani)

  • Il nostro martello è in mano a mia figlia (Brian Wartkins) [Tradotto da Enrico Luttmann, messo in scena da Martina Glenda (interpreti Federica Carruba Toscano e Martina Cremona) Il nostro martello è in mano a mia figlia è un testo durissimo, in cui odio, rancore, invettive e violenza e volgarità fino all’offesa e al massacro ha radici e compimento femminili. Anche noi siamo crudeli, è un nostro diritto, anche noi picchiamo, bestemmiamo e sputiamo – cazzo, guardateci. Pertanto. Si litiga per il possesso di un’auto, il sangue scorre in cucina, una pecora va a fuoco, la vecchia (forse) farà una brutta fine, chissà. E di questo, come una condanna, due sorelle in eterno (o comunque a ogni replica) devono ridare testimonianza]
  • Lemons Lemons Lemons Lemons Lemons (Sam Steiner) [Scelto per la scena da Davide Pascarella Lemons Lemons Lemons Lemons Lemons è la storia di un amore su cui si schianta l’asteroide della Storia. Il governo vuole infatti imporre per legge un limite quotidiano alle parole possibili: 140, come i caratteri che abbiamo su Twitter. Come comunichiamo dunque io e te, che ci siamo conosciuti da poco e che ancora non sappiamo davvero chi siamo? In che modo ci diremo quello che abbiamo da dirci? Ci inventeremo un nostro linguaggio? E basterà questo a salvare nois tessi e il nostro rapporto? Rarefazione comunicativa, rifiuto della complessità, induzione a una semplificazione banalizzante ma anche arbitraria e violenta sottrazione di un fondamento dell’uomo – e dopo le parole, cos’altro ci toglieranno? – in forma di innamoramento dialogico. Sarebbe andata in scena al Nuovo Teatro Sanità, quest’opera, dal 23 al 26 febbraio 2023. Se non avessero chiuso il teatro, tra distrazioni politiche e continue irresponsabilità istituzionali. Che è un modo subdolo e concreto di toglierci le parole. Appunto]
  • Agosto a Osage County (Tracy Letts) [Ci si guarda, ci si studia e si ringhia; ci si affronta, uso a muso e si morde. Potessi, ti ridurrei a brandelli. Anche se hai il mio stesso cognome, il mio sangue, forse ancor di più perché hai il mio cognome e il mio sangue. E nonostante siamo qui, tutte e tutti riuniti, attorno al corpo morente di questa vecchia, malata di cancro, che non crepa e ancora dà gli ordini. C’è una crudeltà quotidiana – guardiamoci allo specchio e trasciniamo davanti al vetro con noi i nostri parenti – in Agosto a Osage County. Ed è talmente feroce da non lasciare alcuno scampo. Eppure in fondo, addirittura oltre il limite, quando questo coro terribile tace, resta una possibilità di salvezza, un po’ di poesia. O una consolazione soltanto, una tregua. Che dura un istante. Torneremo presto ad azzannarci]

14. SPETTACOLO STRANIERO PRESENTATO IN ITALIA

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15. PREMIO UBU ALLA CARRIERA

  • Renato Carpentieri [Insisto, come quasi ogni anno, su quest’attore che discende da Gustavo Modena e che pensa tuttavia al futuro, che ha la corteccia di Prospero ma che ruba anche alla scienza, alla filosofia, alla letteratura i testi che dice, che sul palco porta la sua biografia assieme a quella della figura che interpreta – come i vecchi della Classe morta di Kantor. È lui, due volte – ma che nel frattempo non si stanca ed elabora progetti, apre spazi di formazione e di prova, chiede a college e colleghe di passare giorni insieme a studiare. Nulla direi più del resto – che in un gesto sa mettere tutta la vita, che le sue righe sono una storia, che è bellissimo quando fremita, borbotta e poi tace – se non fosse utile a dire che Renato Carpentieri è ormai più di un grande interprete: è la (nostra) memoria teatrale, incarnata]
  • Enzo Vetrano e Stefano Randisi [La questione mi è nata nel vederli nell’Aspettando Godot di Terzopoulos, quando stanno distesi, capo contro capo, senza vedersi. Allungano le mani l’uno sul corpo dell’altro. Si sfiorano, si tastano, s’afferrano, sembrerebbero uccidersi (c’è una certa tendenza all’insopportabilità per un istante) ma continuano a tenersi, stando assieme. Si tratta di pochi minuti iniziali, rivelatori tuttavia. Questi due errabondi del teatro italiano vengono da lontano. Hanno affrontato slanci e cadute, superato fosse e ribalte, preso applausi e cantonate. E sono ancora qua. Stringendosi sempre. Come fare altrimenti? E con chi stare, se non con te?]
  • Maurizio Buscarino [Da cinquant’anni esatti Buscarino ha scelto il teatro, di cui ha realizzato un’imponente documentazione, bella come poche. Testimoniando spesso percorsi cui nessuno, in principio, avrebbe badato, dedicando i suoi occhi di continuo agli attori e alle attrici. Anche la sua è una vocazione, assoluta quanto quella di chi quest’arte la pratica. Ha Buscarino la stessa dedizione, fa la stessa fatica, respira la stessa polvere, abita gli stessi alberghi, pratica la stessa attitudine al viaggio, vive lo stesso tempo e la stessa scomodità, cerca di continuo anche lui la scoperta, in bilico – sempre – tra presente e memoria. È in tutto e per tutto affratellato ai teatranti. Costantemente accanto, al confine, è uno di loro]

16. PREMI SPECIALI

  • Mercurio Festival di Palermo [Il Mercurio festival chiede agli artisti e alle artiste di un’edizione di indicare colleghe e colleghi, in vista della successiva. Con tanto di motivazione, che va scritta, resa pubblica e che accompagnerà lo spettacolo. Avviene da cinque anni. Conseguenze? Non la solita (e spesso discutibile) pratica della direzione compartecipata. Un processo di responsabilizzazione individuale ma diffusa invece. E la creazione di inedite catene artistiche. E l’induzione non solo a conoscersi, ma a riconoscere nel lavoro di un altro o di un’altra valore, importanza, qualità. Risultato? Indicazioni spesso inattese, che generano un’offerta multidisciplinare (data non dai contrappesi “interni” delle sezioni ma da una pluralità derivante da una fascinazione effettivamente avvenuta) e pubblico in crescita (settemila presenze nell’ultima edizione), che arriva ad acquistare i biglietti sulla fiducia. Vediamo chi c’è, chissà cos’accade]
  • Scuola Elementare del Teatro, diretta da Davide Iodice [Se scorro le pagine (inedite) del diario teatrale di Davide Iodice leggo, a un punto, il desiderio di creare un Conservatorio popolare delle arti sceniche, un luogo pedagogico gratuito ma professionale in cui studiare, apprendere e scambiare saperi senza alcun assillo produttivo. Non una scuola o un’accademia che rilascia titoli infine, ma un’opportunità concreta di formazione permanente di sé applicato alla scena. Da nove anni questo desiderio esiste. Con pochi fondi e all’ex-Asilo Filangieri prima (a lungo, mai aiutato dalle grandi istituzioni teatrali nazionali o territoriali) e adesso anche col sostegno del Teatro di Napoli e del Trianon. Vi si accede per bando, s’aiuta chi ha meno possibilità economiche con borse di studio, si ha la possibilità d’incontrare Maestri e Maestre stabili o di passaggio a Napoli, funge anche da strumento d’inclusione sociale e ha tre percorsi interni (Vocazioni e Ricerca, Officina, Creazioni). Un unicum, credo, in Italia]
  • Crest (e Teatro TaTà) di Taranto [Da Crest di Massimo Marino (Titivillus): «Se esci dall’edificio un po’ di paura ti viene, avedere quella ciminera azzurra così alta, vicina, incombente. Anche quando il gigante sta in quiete e non sbuffa. E loro, che ci vivono sotto, per la maggior parte del giorno? “Noi abbiamo scelto di starci. Sapevamo di fare una scelta difficile, ma l’abbiamo perseguita. E abbiamo fatto un lavoro incredibile per informare la città [e l’Italia tutta] che qui, al quartiere Tamburi, stava nascendo un teatro. Abbiamo lavorato per le strade della città, organizzato mostre nelle vetrine dei negozi, disseminato momenti di danza urbana e combattuto timori e stereotipi». Stagioni serali, teatro per le nuove generazioni, laboratori, residenze, per alcuni anni anche uno dei più interessanti festival del Sud. Un teatro dal 2008, ai piedi dell’ILVA, ch’era uno spazio abbandonato e una storia di una compagnia che da quarantacinque anni abita lì dove, se puoi, tendi a fuggire]
  • Le lacrime della Duse [In un sistema teatrale che bada alla produzione innanzitutto, che comprime i percorsi di prova e riduce le possibilità di residenza e di studio, che sta cancellando tournée e repliche (che da sempre sono anche l’occasione in cui gli attori coabitano, passandosi competenze e segreti del proprio mestiere) Le lacrime della Duse ha rappresentato una controtendenza. Un atelier didattico durato sette settimane (tra giugno e ottobre), ad accesso gratuito e su bando, destinato a giovanissimi attori e giovanissime attrici, che hanno avuto la possibilità di osservare, ascoltare e lavorare con Glauco Mauri. «L’arte dell’attore è un sapere immateriale che si stabilisce per contatto» dice il progetto, voluto dalla compagnia Mauri Sturno e organizzato in collaborazione con CREA – Nuovo Teatro Ateneo di Roma. È ciò che effettivamente avvenuto: una trasmissione per contatto. Che neanche il dolore ha interrotto]
  • Apriti Millico. Quanta fame hai di teatro? [Il teatro Vico Giuseppe Millico di Terlizzi nasce tra il 1837 e il 1877, con quarant’anni di lavoro dunque. Sulla facciata ha le colonne dai capitelli dorici e ionici, il primo piano è decorato dal bagnato liscio, i soffitti sono affrescati, i parapetti hanno il velluto e l’arcoscenico porta quattro mezze colonne di legno e cartapesta. O aveva? Chi può dirlo in effetti… Il Millico è chiuso, nonostante i cinque milioni dal Pnrr per il restauro, e Terlizzi da tempo non ha un Comunale. Il che vuol dire essere privati di un diritto costituzionale: l’accesso all’esperienza formativa dell’arte. Apriti Millico nasce da quest’assenza: è una ribellione progettuale, provocatoria e arrabbiata messa in atto da VicoQuartoMazzini in collaborazione con l’Associazione Arci La Garra di Terlizzi. Il nostro teatro ha i portoni sbarrati? E noi andiamo a cercare teatro nei paesi limitrofi e altrove in regione. Chi partecipa viaggia assieme verso gli spettacoli, incontra artisti, organizzatrici, tecnici e critici, discute prima e dopo la visione. Legge, argomenta, approfondisce – saturando la mancanza, reagendo concretamente all’assenza. Rifondazione in loco di una vocazione teatrale, costituzione progressiva comunità in crescita di spettatrici e spettatori, fa: in attesa che chi ha il compito, l’obbligo, la responsabilità istituzionale faccia. Sarebbe ora]

* in deroga: concorre straordinariamente nell’edizione 2023 [approfondisci]

Immagini
Produzione
Progetto speciale
Coproduzione
Titolo dello spettacolo
Sottotitolo
Testo di
Testo originale presentato per la prima volta
Riscrittura/Adattamento
Regia/Coreografia
Città del debutto
Luogo del debutto
Data del debutto
Performer
Presenza performer under 35
Elenco performer under 35
Scenografia
Costumi
Light Design
Sound Design o Musiche Originali
In collaborazione con
Con il sostegno di
Si ringrazia
Note
Titolo dello spettacolo Testo Regia/Coreografia Produzione Luogo del debutto Data del debutto
Paolo Sorrentino devo dirti una cosa Giuseppe Scoditti e Gabriele Gerets Albanese Gabriele Gerets Albanese Teatri di Bari Teatro Kismet 29/12/2024
POEMS Allison Grimaldi Donahue Aurelio Di Virgilio Atelier delle Arti Livorno Fabbrica Europa Festival 20/09/2024
Strangers in the night Jos Baker Jos Baker, Carlo Massari C&C Company Festival Oriente Occidente - Teatro Cartiera 31/08/2024
Dieci. Accuratamente a cura della compagnia a cura della compagnia Tra un atto e l'altro APS Villa Salina Malpighi 31/08/2024
Barrani Tolja Djokoovic Anna Serlenga Base Milano Chiesa di San Giovanni Battista 30/08/2024
Mata HAri Del Grandi - Furlani - Monga - Valagussa VAN Associazione Culturale Teatro Remondini 29/08/2024
Come sopravvivere in caso di danni permanenti Francesca Santamaria (collaborazione al testo Domenico Volontè) Giovanni Di Capua (direzione tecnica) CodedUomo, Operaestate Festival Veneto CSC San Bonaventura 29/08/2024
Marco Polo e la principessa - una tragicomica storia d'amore Michele Modesto Casarin Michele Modesto Casarin Carnevale di Venezia Ristorante Da Doro 28/08/2024
Canzuna sgreta Giuseppe Massa (da Bernard-Marie Koltès) Giuseppe Massa Operaestate Festival Villa Ca' Erizzo Luca 25/08/2024
Nuttata - Progetto Koltès Domenico Ingenito (da Bernard-Marie Koltès) Domenico Ingenito Interno5 / Operaestate Festival Palazzo Sturm 24/08/2024
NEVER YOUNG Francesca Macrì e Andrea Trapani Francesca Macrì Elsinor - centro di produzione teatrale OperaEstate Festival - BMotion 23/08/2024
Adesso vattene, fratello mio Giorgiomaria Cornelio Giorgiomaria Cornelio e Danilo Maglio Congerie Ex Fornace Smorlesi, Valle Cascia 22/08/2024
Melville e la Balena Bianca Igor Chierici Igor Chierici Compagnia Chierici-Cicolella Porto Antico di Genova - Isola delle Chiatte 22/08/2024
Mattimonio Andrea Merendelli, Paolo Pennacchini Andrea Merendelli Teatro di Anghiari Castello di Sorci, Anghiari (AR) 10/08/2024
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